SIRMIONE  GIOSUE’ CARDUCCI

Carducci Giosuè

castello di Sirmione
Il Castello di Sirmione visto dal lago

Giosuè Carducci, poeta della natura per eccellenza, amò il lago di Garda come la tranquilla vita  e la dolcezza della campagna. Spesso  si trovava a Desenzano per fare il commissario per  gli esami di Liceo. Scrisse le odi  di Sirmione e Da Desenzano    pagine di argomento polemico  amava il lago ed anche le sue burrasche   tanto che nel  luglio 1885 nonostante le dissuasioni volle affrontare la burrasca ( Pietro Rossi).

Ed ancora invita l’amico  Gino Rocchi  bolognese a  raggiungerlo a Desenzano

DA DESENZANO
a g.r.

Gino, che fai sotto i felsinei portici?
mediti come il gentil fior de l’Ellade
d’Omero al canto e a lo scalpel di Fidia
lieto sorgesse nel mattin de i popoli?Da l’Asinella gufi e nibbi stridono
invidïando e i cari studi rompono.
Fuggi, deh fuggi da coteste tenebre
e al tuo poeta, o dolce amico, vientene.Vienne qui dove l’onda ampia del lidio
lago tra i monti azzurreggiando palpita:
vieni: con voce di faleuci chiàmati
Sirmio che ancor del suo signore allegrasi.
Vuole Manerba a te rasene istorie,
vuole Muníga attiche fole intessere,
mentre su i merli barbari fantasimi
armi ed amori con il vento parlano.

 

Ascoltiam sotto anacreòntea pergola
o a la platonia verde ombra de’ platani,
freschi votando gl’innovati calici
che la Riviera del suo vino imporpora.

Dolce tra i vini udir lontane istorie
d’atavi, mentre il divo sol precipita
e le pie stelle sopra noi vïaggiano
e tra l’onde e le fronde l’aura mormora.

Essi che queste amene rive tennero
te, come noi, bel sole, un dí goderono,
o ti gittasser belve umane un fremito
da le lacustri palafitte, o agili
Veneti a l’onda le cavalle dessero
trepida e fredda nel mattino roseo,
o co ’l terreno lituo segnassero
nel mezzogiorno le pietrose acropoli.

Gino, ove inteso a le vittorie retiche
o da le dacie glorïoso il milite
in vigil ozio l’aquile romulee
su ’l lago affisse ricantando Cesare,

ivi in fremente selva Desiderio
agitò a caccia poi cignali e daini,
fermo il pensiero a la corona ferrea
fulgida in Roma per la via de’ Cesari.

Gino, ove il giambo di Catullo rapido
l’ala aprí sovra la distesa cerula,
Lesbia chiamando tra l’odor de’ lauri
con un saliente gemito per l’aere,

ivi il compianto di lombarde monache
salmodïando ascese vèr’ la candida
luna e la requie mormorò su i giovani
pallidi stesi sotto l’asta francica.

E calerem noi pur giú tra i fantasimi
cui né il sol veste di fulgor purpureo
né le pie stelle sovra il capo ridono
né de la vite il frutto i cuor letifica.

Duci e poeti allor, fronti sideree,
ne moveranno incontro, e “Di qual secolo
— dimanderanno — di qual triste secolo
a noi venite, pallida progenie?

A voi tra’ cigli torva cura infóscasi
e da l’angusto petto il cuore fumiga.
Non ne la vita esercitammo il muscolo,
e discendemmo grandi ombre tra gl’inferi

Gino, qui sotto anacreòntea pergola
o a la platonia verde ombra de’ platani,
qui, tra i bicchieri che il vin fresco imporpora,
degna risposta meditiamo. Versasi

cerula notte sovra il piano argenteo:
move da Sirmio una canora imagine
giú via per l’onda che soave mormora
riscintillando e al curvo lido infrangesi.

Ecco: la verde Sirmio nel lucido lago sorride,
fiore de le penisole.

Il sol la guarda e vezzeggia: somiglia d’intorno il Benaco
una gran tazza argentea,

cui placido olivo per gli orli nitidi corre
misto a l’eterno lauro.

Questa raggiante coppa Italia madre protende,
alte le braccia, a i superi;

ed essi da i cieli cadere vi lasciano Sirmio,
gemma de le penisole.

Baldo, paterno monte, protegge la bella da l’alto
co’l sopracciglio torbido:

il Gu sembra un titano per lei caduto in battaglia,
supino e minaccevole.

Ma incontro le porge dal seno lunato a sinistra
Salò le braccia candide,

lieta come fanciulla che in danza entrando abbandona
le chiome e il velo a l’aure,

e ride e gitta fiori con le man piene, e di fiori
le esulta il capo giovine.

Garda là in fondo solleva la ròcca sua fosca
sovra lo specchio liquido,

cantando una saga d’antiche cittadi sepolte
e di regine barbare.

Ma qui, Lalage, donde per tanta pia gioia d’azzurro
tu mandi il guardo e l’anima,

qui Valerio Catullo, legato giú a’ nitidi sassi
il fasèlo britinico,

sedeasi i lunghi giorni, e gli occhi di Lesbia ne l’onda
fosforescente e tremula,

e ‘l perfido riso di Lesbia e i multivoli ardori
vedea ne l’onda vitrea,

mentr’ella stancava pe’ neri angiporti le reni
a i nepoti di Romolo.

A lui da gli umidi fondi la ninfa del lago cantava
Vieni, o Quinto Valerio.

Qui ne le nostre grotte discende anche il sole, ma bianco
e mite come Cintia.

Qui de la vostra vita gli assidui tumulti un lontano
d’api sussurro paiono,

e nel silenzio freddo le insanie e le trepide cure
in lento oblio si sciolgono.

Qui ‘l fresco, qui ‘l sonno, qui musiche leni ed i cori
de le cerule vergini,

mentr’Espero allunga la rosea face su l’acque
e i flutti al lido gemono.

Ahi triste Amore! egli odia le Muse, e lascivo i poeti
frange o li spegne tragico.

Ma chi da gli occhi tuoi, che lunghe intentano guerre,
chi ne assecura, o Lalage?

Cogli a le pure Muse tre rami di lauro e di mirto,
e al Sole eterno li agita.

Non da Peschiera vedi natanti le schiere de’ cigni
giú per il Mincio argenteo?

da’ verdi paschi dove Bianore dorme non odi
la voce di Virgilio?

Volgiti, Lalage, e adora. Un grande severo s’affaccia
a la torre scaligera.

Suso in Italia bella sorridendo ei mormora, e guarda
l’acqua la terra e l’aere.

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